08 Sep
08Sep

La canonizzazione di Carlo Acutis e Piergiorgio Frassati è stata accolta con entusiasmo negli ambienti ecclesiali. Due giovani, due vite spezzate troppo presto, due testimoni che hanno mostrato come la fede possa incarnarsi nella passione per la tecnologia, per la montagna, per gli amici, per i poveri. Due volti che parlano di una santità accessibile, vicina, “normale”.

Eppure, mentre guardavo Piazza San Pietro gremita, le bandiere dell'AC sventolare e la Mamma di San Carlo vestita di nero con la veletta nera in testa, mentre ascoltavo la descrizione delle reliquie, un pezzo del Cuore per il giovane Acutis e un lembo di vestito per l'alpinista torinese, una domanda scomoda si è imposta con forza alla mia mente: ma a chi parlano davvero queste due figure? Non c'è il rischio che oggi abbiamo proposto una santità di nicchia?

Per i giovani già dentro la Chiesa, Carlo e Piergiorgio sono icone potenti. Raccontano che la fede non è solo liturgia o moralismo, ma entusiasmo, dono di sé, libertà. Alimentano vocazioni, rinforzano appartenenze, fanno vibrare chi ha già deciso di giocarsi la vita nel Vangelo.
Ma la stragrande maggioranza dei ragazzi? Quelli che non frequentano parrocchie, che non conoscono i sacramenti, che faticano perfino a nominare Dio senza imbarazzo? 

Per loro questi due santi rischiano di restare nomi lontani, simboli interni a un linguaggio che non li riguarda, ho avuto l'impressione davanti allo schermo che è fallito l'ennesimo tentativo di gettare il ponte verso una sponda sempre più indifferente e lontana.

Oggi abbiamo giovani che parlano un’altra lingua. Il problema non è Carlo o Pier Giorgio della cui santità di vita non dubito, davvero! È la distanza culturale. Oggi i giovani respirano altri codici: autenticità cercata nei social, comunità costruite online, ideali che si incarnano più facilmente nelle lotte climatiche o nei diritti civili che nelle processioni, ricerca di scelte radicali. Il linguaggio ecclesiale – anche quando propone figure giovani e contemporanee – rimane incomprensibile a chi vive immerso in un orizzonte radicalmente diverso.

La Chiesa insiste nel proporre modelli, ma spesso non si accorge che non riesce a creare ponti linguistici. È come, per noi che abbiamo vissuto l'epoca delle radio, trasmettere in onde AM a una generazione che ascolta solo in streaming.

Ecco allora, secondo me, quale potrebbe essere la provocazione: la canonizzazione non basta. Se la Chiesa non impara a parlare i linguaggi dei giovani di oggi, se non accetta di mettersi in ascolto e di lasciarsi interrogare dalle loro fragilità e inquietudini, se non abbandona la presunzione di proporre risposte preconfezionate e per la maggior parte delle volte come dogmi infallibili, la santità di Acutis e Frassati rimarrà un patrimonio per pochi, non una buona notizia per tutti.

Il rischio è ancora quello di celebrare due santi che potrebbero scuotere il mondo giovanile, ma che finiscono invece per confortare chi già crede, lasciando intatta la distanza con la maggioranza, in conclusione: di esporre santini del passato anziché suscitare santi per il futuro.

Carlo e Pier Giorgio hanno mostrato che è possibile vivere il Vangelo con radicalità nella modernità. Ma se la loro memoria diventa solo un racconto interno alla Chiesa, saranno santi “di famiglia”, non testimoni universali.

Forse la vera sfida, oggi, non è canonizzare modelli, ma imparare a tradurli in un linguaggio che i giovani possano non solo ascoltare, ma riconoscere come propri. Altrimenti, la loro voce – capace di incendiare i cuori – rischia di diventare un sussurro che nessuno, fuori dalle mura ecclesiali, è più in grado di sentire.

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