Nel dramma del conflitto israelo-palestinese, la parola del credente non può ridursi a slogan o a bandiere. Né la Chiesa può farsi parte di cortei o iniziative che rischiano di snaturare la sua missione.
Nel tempo della guerra e della propaganda, parlare di pace è diventato difficile. Ogni parola rischia di essere strumentalizzata, ogni gesto interpretato, ogni silenzio sospetto. Eppure, proprio in questi giorni, in cui il conflitto israelo-palestinese lacera la coscienza del mondo, al cristiano è chiesto di custodire un linguaggio di pace che non appartiene alla politica, ma al Vangelo. È una lingua che non si schiera, ma si china. Non si misura in bandiere, ma in volti. Non divide, ma accompagna. Non fugge, ma resta, come i fratelli delle Chiese che, pur potendosi mettere in salvo, sono rimasti a condividere la sofferenza di quei popoli.
In questo senso, è necessario vigilare perché la parola del cristiano non venga confusa con quella delle ideologie o delle piazze. Le polarizzazioni politiche e ideologiche non possono essere il terreno su cui germoglia la speranza evangelica. Anche le iniziative civili e umanitarie – come la recente spedizione della Global Sumud Flotilla – pur animate da un sincero desiderio di giustizia e solidarietà, non esauriscono la responsabilità cristiana. La pace evangelica è più profonda della solidarietà organizzata, perché nasce da un cuore che riconosce in ogni uomo, israeliano o palestinese, un fratello ferito.
Negli ultimi giorni anche qualche Vescovo e alcuni sacerdoti hanno partecipato a manifestazioni pubbliche in favore della causa palestinese. Un gesto che, a mio avviso e lungi da qualsiasi forma di giudizio, pur animato da buone intenzioni, solleva interrogativi sulla opportunità pastorale e simbolica di certe presenze. Quando un prete scende in piazza, la sua figura non è mai neutra. Porta con sé la credibilità della Chiesa, il peso del suo ministero, la parola di un’istituzione che dovrebbe rimanere casa di tutti. La sua presenza può facilmente essere letta come presa di posizione politica, e dunque divisiva. Il sacerdote che sfilando per Gaza o per Israele crede di testimoniare la pace rischia, senza volerlo, di trasformarsi in attore di una parte, smarrendo la libertà evangelica che gli è propria. Quando la piazza diventa il palcoscenico della visibilità, la parola della Chiesa rischia di perdersi nel rumore degli slogan.
Il linguaggio della pace cristiana non nasce dai comunicati di responsabilità né dalle alleanze con questa o quella parte, ma dall’incontro. È la lingua di chi si ferma accanto, di chi ascolta prima di parlare, di chi cura senza chiedere da che parte stai. È il linguaggio di chi non denigra o scredita chi la pensa diversamente non aggredisce l’impegno civile e le iniziative di solidarietà. È la lingua delle Beatitudini: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio».
Per questo la testimonianza della Chiesa non può ridursi all’attivismo o all’adesione a iniziative mediatiche. Il cristiano non si limita a marciare: accompagna. Non urla: prega. Non accusa: consola. E se denuncia l’ingiustizia, lo fa senza odio, perché la sua forza non è nella protesta, ma nella misericordia.
In un mondo attraversato da guerre che sembrano senza fine, il compito del credente è custodire la parola della pace come un seme fragile e ostinato. Non c’è neutralità nella compassione, ma neppure partigianeria nell’amore.
Il cristiano, la comunità ecclesiale sono chiamati a parlare la lingua di Cristo, quella che non urla dai megafoni ma si china a fasciare le ferite. Perché la pace non si manifesta solo in piazza: si costruisce educando al rispetto reciproco, ma soprattutto a sapersi porre come servo accanto all’uomo che soffre.