Il discorso di Giorgia Meloni ad Assisi, in occasione della festa di San Francesco, patrono d’Italia, ha avuto il tono e la sostanza di una celebrazione identitaria più che di una riflessione spirituale. Il suo pronunciamento in un contesto così solenne, alla presenza delle autorità religiose e mentre il tutto veniva trasmesso per la fruizione di quella fetta di cattolici consistente presente in Italia non ha rinunciato ai toni della propaganda, sbavando perfino nella critica contro il dissenso di alcuni ascoltatori.
La premier ha assunto Francesco come fondatore di una sorta di “coscienza nazionale”, un simbolo dell’italianità che resiste e si rialza, piegando così la sua figura universale a un racconto politico di appartenenza. Attraverso l’esaltazione di Francesco ha anche assicurato da brava “madre cristiana” il suo impegno a farsi garante e custode del prezioso patrimonio di fede e di spiritualità quasi più dei Vescovi, sacerdoti, e frati presenti.
Ma quello che voglio sottolineare è principalmente che Francesco non appartiene a nessuno. Non è il santo della patria, è il santo del mondo. È colui che spogliandosi di tutto rifiutò il potere, che cercò la pace non come strategia, ma come conversione radicale. Ridurlo a icona di una “identità italiana” significa tradirne la radicalità evangelica e disinnescare la sua forza di scandalo.
La destra italiana, non solo quella di oggi, ha spesso cercato di trasformare i simboli religiosi in strumenti di coesione nazionale, piegando la fede alla retorica del patriottismo, non possiamo dimenticare chi firmò i Patti Lateranensi.
Sta di fatto che l’Assisi di Francesco non è la culla della nazione: è la soglia del mondo, il luogo dove la parola “fratello” supera i confini (pure quelli che si tentano di proteggere coi blocchi navali) e le appartenenze (pure quelle che vengono, a ragion di diritto, prima delle altre).
Ancora più sconcertante, a mio avviso, nel discorso di Meloni, è stato l’accostamento tra il messaggio di pace di San Francesco e i “tentativi di pace” di Donald Trump. Un paragone che non regge, né sul piano storico né su quello etico. L’uomo del disarmo e dell’ascolto non può essere evocato accanto a chi ha fatto della forza, del muro e del conflitto il proprio linguaggio politico. Mettere sullo stesso piano Francesco e Trump significa smarrire il senso stesso della parola “pace”. Ma si sa, pur di creare l'aura mistica attorno al magnate americano perché ne tragga come profitto il Nobel per la pace, possiamo anche svendere quella fede che abbiamo promesso di custodire.
Da un intervento ad Assisi ci si sarebbe invece aspettati altro: non una lezione di identità, ma un segno concreto di “conversione” politica. Francesco non parlava di patria, parlava di poveri. Avrebbe chiesto (secondo una mia libera interpretazione) di agire, non di celebrare. Di affrontare le nuove povertà che attraversano l’Italia quali il lavoro precario, le famiglie che non arrivano a fine mese, i giovani senza prospettive, gli anziani dimenticati. Ma da Assisi non sono arrivati annunci, né impegni immediati. Solo una retorica che trasforma la spiritualità in bandiera e la pace in slogan.
San Francesco non fu il fondatore di un’identità nazionale. Fu, semmai, il testimone di una fraternità senza confini. Ed è questo, oggi, il messaggio più rivoluzionario — e più politico — che continuiamo a ignorare.