Palermo piange ancora una volta un ragazzo. Un giovane la cui vita è stata spezzata troppo presto, in circostanze che riportano la città e la Sicilia tutta davanti al proprio specchio: quello di una comunità che, nonostante i passi avanti e le tante storie di riscatto, continua a fare i conti con la violenza come linguaggio, con la forza come strumento di affermazione, con la cultura mafiosa come ombra lunga che non smette di affascinare.
Ogni volta che accade una tragedia così, la tentazione immediata è quella di invocare più controlli, più repressione, più pene severe. Ma questa logica — lo abbiamo visto — non basta. Anzi, spesso fallisce. La repressione interviene dopo, quando tutto è già accaduto. La vera battaglia si gioca prima, sul terreno dell’educazione, della formazione, della presenza delle istituzioni nei quartieri più fragili.
Serve una seria azione educativa che coinvolga tutte le agenzie sociali: la scuola, certo, ma anche le famiglie, le parrocchie, le associazioni, le istituzioni locali. Nessuno può chiamarsi fuori. È lì che si costruisce il senso del limite, il rispetto per l’altro, l’idea che il valore di una persona non si misura nella capacità di imporsi ma in quella di comprendere e di scegliere il bene.
In troppi contesti, ancora oggi, i giovani crescono senza alternative concrete, senza modelli positivi a cui guardare, immersi in un contesto dove la forza e l’arroganza sembrano le uniche strade per ottenere rispetto o visibilità.
La presenza dello Stato nei territori più deboli deve diventare quotidiana e reale, non solo attraverso le forze dell’ordine ma con politiche sociali, culturali e lavorative che restituiscano dignità e speranza. In una terra che cerca costantemente il proprio riscatto, Palermo compresa, è doloroso constatare quanto ancora sia radicata la fascinazione per modelli legati alla sopraffazione, alla prepotenza, all’illegalità.
Eppure, proprio qui, dove la mafia ha mostrato il suo volto più feroce, sono nate anche le esperienze più luminose di impegno civile, di rinascita, di bellezza condivisa. Ricordare un ragazzo ucciso significa chiedersi che cosa possiamo fare, tutti, per evitare che altri ragazzi percorrano strade di violenza o finiscano vittime di essa. Significa scegliere, come comunità, di investire nel futuro e non nella paura.
Perché l’unico modo per spezzare davvero il cerchio della violenza non è punire di più, ma educare meglio.