13 Oct
13Oct

Le parole della Ministra Roccella sul tema dell’antisemitismo e, ancor più, sul ruolo delle università come presunti “luoghi del non-pensiero”, lasciano un retrogusto amaro. Non solo per ciò che affermano, ma per ciò che implicano: la pretesa di un monopolio morale sulla memoria e sull’interpretazione della storia. 

L’antisemitismo non si combatte brandendo la Shoah come un’arma retorica, né trasformando la memoria in un campo di battaglia ideologica. Si combatte con l’onestà intellettuale, con l’ascolto, con l’educazione alla complessità e al dubbio. Dire che le università sarebbero diventate “luoghi del non-pensiero” è un modo per delegittimare gli spazi in cui il pensiero critico nasce e si forma, spesso proprio mettendo in discussione le narrazioni ufficiali del potere. 

Io ad Auschwitz ci sono stato due volte. Una di quelle non era una “gita scolastica”, ma un vero e proprio viaggio d’istruzione, nel senso più profondo del termine. Per giorni ho sentito addosso l’odore di quei luoghi, come se la memoria si fosse attaccata alla pelle. E davanti alla teca dei capelli ho provato una commozione che fatta dolore è difficile da descrivere: lì, tra i segni concreti dell’annientamento, non c’è spazio per le ambiguità. 

Per questo dico alla Ministra: fare i conti con la storia non significa stravolgerla o riscriverla, ma chiamare le cose con il proprio nome. Se quella violenza fu opera del nazismo e della cooperazione del fascismo, dobbiamo avere il coraggio di dirlo — senza attenuanti, senza “ma”, senza giustificazioni postume. Che, poi, l’Italia non abbia mai davvero fatto i conti con il fascismo lo dimostra il fatto che ancora oggi, quasi un secolo dopo, si senta dire che “Mussolini ha fatto anche cose buone”. Ma a quale prezzo? Quello della libertà negata, della censura, della persecuzione, dell’alleanza con chi ha trasformato lo sterminio in sistema. 

Ecco perché le università, con tutti i loro limiti, restano baluardi essenziali del pensiero libero: perché insegnano a non accettare risposte semplici di fronte a domande complesse, e a non piegare la verità al potere di turno. La memoria non è proprietà di un ministero, ma un esercizio quotidiano di coscienza. E solo riconoscendo la verità intera, anche quella che fa male, potremo davvero dire di essere usciti dal buio. 

Ecco perché le parole della ministra non sono solo ingiuste: sono pericolose. Perché insinuano l’idea che la memoria debba essere controllata, che la storia si possa piegare alle esigenze del presente.
Ma la memoria, quella vera, non si piega: pesa. E ci chiede, ogni volta, di avere il coraggio di guardarla in faccia.

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