25 Aug
25Aug

Essendo stata un'estate abbastanza impegnativa ho un po' tralasciato la scrittura, mi sono documentato come sempre, ho letto, ho preso qualche appunto e ora spero di tornare a condividere con voi qualche riflessione. Questa parte da due eventi che ho seguito con attenzione: il giubileo dei giovani e quello dei missionari digitali, in particolare sul primo si è tentato di misurare la vitalità della Chiesa a distanza di 25 anni.

Io credo, al di là degli eventi, che non possono essere la cartina di tornasole dello stato di salute attuale della Chiesa, che negli ultimi anni, Essa si trova a vivere una stagione segnata da una certa stanchezza della fede. Le parrocchie, pur restando punti di riferimento, registrano una partecipazione ridotta, spesso limitata a riti e consuetudini più che a un reale incontro con Cristo. La trasmissione della fede alle nuove generazioni si fa sempre più fragile: famiglie distratte  o assenti, comunità poco coese nei rapporti umani e relazionali (basta un campanile di riferimento per dirsi comunità?), linguaggi che non riescono a intercettare la sensibilità contemporanea. Il rischio è quello di ridursi a una Chiesa che amministra il passato più che generare futuro.

Parallelamente, assistiamo al fenomeno dei “preti influencer” o missionari digitali, figure che tentano di portare il Vangelo nelle piazze digitali. Su Instagram, TikTok o YouTube si moltiplicano i contenuti che cercano di parlare di Dio in modo immediato, fresco, a volte ironico. Non voglio demonizzare la presenza sui social, anche io ne faccio uso di comunicazione più che strumento di evangelizzazione ed è indubbio che la presenza sui questi mezzi di comunicazione rappresenti un’opportunità per incontrare chi difficilmente varcherebbe la soglia di una chiesa. Tuttavia, non di rado queste esperienze rischiano di restare superficiali, frammentate, più simili a slogan che a un vero annuncio capace di accompagnare le persone in un cammino di fede. L’evangelizzazione ridotta a like e visualizzazioni rischia di rimanere esterna, senza radici né continuità.

Per questo diventa urgente un ritorno alle fonti. Non si tratta di nostalgia, ma di fedeltà al cuore del Vangelo. Secondo me tre sono le vie imprescindibili: 
La Parola di Dio: senza ascolto, meditazione e annuncio della Scrittura, la comunità cristiana perde la sua linfa vitale. È la Parola che illumina, giudica, consola e apre alla speranza.
La Catechesi: non bastano frammenti di messaggi, serve una formazione solida, paziente, che introduca alla fede in modo organico che si faccia carico di accompagnare più che indottrinare. Solo così si cresce come discepoli e non come consumatori occasionali di spiritualità.
La Carità: il Vangelo si rende credibile solo se diventa carne nella vicinanza ai poveri, negli atti concreti di amore fraterno. È la carità che mostra la verità della fede, più di mille discorsi. Se ci facciamo caso la Chiesa, spesso sotto attacco da diversi punti di vista, non viene mai screditata per le sue opere di carità, per il servizio capillare che laici, preti, associazioni e movimenti svolgono attraverso le Caritas e atre iniziative verso i poveri e i bisognosi.

La Chiesa, se vuole davvero rinascere, deve evitare due tentazioni: la rassegnazione di una fede spenta e la ricerca spasmodica di visibilità digitale. La sua forza non sta nello spettacolo né nel ripiegamento, ma nella semplicità radicale delle origini: spezzare il pane della Parola, educare alla fede, farsi prossima.
Solo così la comunità cristiana potrà ritrovare la freschezza delle origini e parlare con autenticità al cuore dell’uomo contemporaneo.

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